Dopo il 47° Congresso

L’alternativa democratica

Ora che si è concluso il 47° Congresso nazionale del partito sarebbe il caso di mettere da parte livori, rancori, polemiche e quant’altro, per capire cosa bisogna fare. Molti amici sembrano quasi convinti di aver vissuto in un grande partito di massa posto al centro dell’universo, dimenticando non solo le nostre condizioni di esigua minoranza, ma anche il mutamento del sistema politico per cui il pluralismo dei partiti si sarebbe voluto semplificare a colpi d’accetta. La crisi del Pri nasce almeno davanti al bipolarismo maggioritario nel 1994, per cui ci si è chiesto prima di aderire ai progressisti, poi all’Ulivo, poi al Pdl. L’aver rifiutato questa deriva ha avuto un costo grave perché, come dire, è stata quella che si chiama una scelta controcorrente. La corrente dell’opinione pubblica ha invece trascinato molti nostri simpatizzanti e dirigenti, più o meno felicemente, in grandi partiti diversi da quello in cui sono cresciuti. Perché non ci siamo piegati? Non per tigna, che sarebbe pure una valida ragione; vecchi mazziniani come noi costretti ad iscriverci al partito di Occhetto, di Berlusconi, o di Veltroni? Escludiamolo a priori, per una semplice ragione di democrazia repubblicana. Non sono forse 18 parlamentari di Forza Italia, solo ieri, ad aver denunciato la deriva autoritarista del movimento? E non è forse l’ex segretario del Pd fino a due anni fa, che dichiara da giorni che il suo partito ed il suo governo mettono a rischio la democrazia del Paese con le riforme annunciate? Evidentemente noi abbiamo considerato questo rischio qualche anno prima e avremmo voluto affrontarlo con tutta la possibile compattezza dei nostri eletti e dei nostri iscritti, che invece si sono mossi spesso in ordine sparso, con il risultato di venir infilzati uno a uno. Per dirla con Mameli, “stringiamoci a coorte” perché le difficoltà alle quali il Partito dovrà far fronte suggeriscono di mantenere integro l’attuale impegno degli amici oggi in prima linea. Il problema del rinnovamento del partito, sia chiaro, è un problema serio. Ma il Pri ha, per un verso, estremo bisogno delle energie e delle risorse umane di tutti gli amici repubblicani per dare concretezza operativa all’ambizioso progetto politico scaturito dal Congresso; e nel contempo deve cercare di evitare quanto avvenne nel 1922, quando il nostro Partito si diede un gruppo dirigente giovane, che (Casalini in testa) poi non trovò di meglio che aderire in larga parte al fascismo. Fu grazie alla forza morale e al convincimento dei “vecchi” repubblicani che fu possibile mantenere vivo e forte l’impegno politico del Pri. Oggi dobbiamo essere pronti a fronteggiare la sfida incombente del pensiero unico, del partito unico. Un ospite gradito al nostro congresso, Corrado Passera, ha denunciato questo nostro stesso timore, quello per cui, se il governo riuscisse a portare a casa sia la riforma del Senato che quella elettorale, avremmo che un solo partito, in grado di vincere le elezioni, si troverebbe in mano tutto il sistema istituzionale del Paese, dal Quirinale, a cascata fino alle partecipate dello Stato. È vero che accade così anche in America, ma lì ci sono sufficienti “check and balance” e contropoteri, che da noi al momento nemmeno ci si immagina. Sia chiaro che non crediamo, sinceramente, che Renzi voglia assumere poteri assoluti, ma dobbiamo comunque costruire l’opportunità di una iniziativa repubblicana per sollecitare con chi lo ritiene opportuno una comune riflessione più concreta e più efficace sui problemi del Paese. Dobbiamo costruire uno svolgimento più articolato e democratico della vita politica nazionale, anche attraverso l’impegno di tutti coloro che sono consapevoli della necessità di dar vita nel nostro Paese ad un sistema di alternativa che sia più in sintonia con le realtà politiche dei paesi dell’Europa occidentale.

Roma, 11 marzo 2015